Grazie Trivigno e terra di Basilicata, rifugio sicuro dalla pandemia

Trivigno

Il buio permette di vedere cose che la luce nasconde. Se non ci fosse l’oscurità della notte non potremmo godere dell’infinità delle stelle o della magia di un plenilunio. All’alba di questo nuovo giorno per l’Italia, quello della parziale riapertura agli uomini e al mondo, posso dire che la mia notte, quella della pandemia, dell’isolamento sociale, della paura da contagio da coronavirus, non è passata invano, anzi come sempre, ha portato consiglio. Cosa mi ha sussurrato in questi 59 giorni di clausura forzata? Il messaggio più nitido e luminoso è la fortuna d’aver vissuto questa notte dell’umanità nel mio piccolissimo borgo lucano: Trivigno, dove non solo non c’è stato nemmeno un caso di covid19 ma nemmeno la minaccia che potesse verificarsi una cosa del genere. E, inoltre, ha rinforzato quella risposta che da sempre mi risuonava dentro e nei sogni, ovvero la giusta decisione che presi un giorno di non lasciare il mio “nido” per palazzi, carriere, intrattenimenti urbani o città metropolitane.


Quando l’impotenza della tecnica o del progresso si è resa più che mai visibile e l’uomo ha dovuto fare i conti con la propria superbia, subordinandosi all’eterno potere della Natura, resa matrigna dai nostri ripetuti comportamenti ingrati nei suoi confronti, il mio piccolo paesino mi ha protetta, rassicurata, resa tranquilla mentre tutto il mondo impazziva. Non solo per il suo essere “isola” naturale e incontaminata da sempre, ma anche perché quel che fino a gennaio 2020 era considerato sintomo di “depressione economica”, sottosviluppo e isolamento, da marzo in poi è diventato per tutti il “paradiso” dei “salvati” dalla dannazione delle città, il loro inferno di masse d’uomini potenzialmente “infetti”, i loro gironi terrificanti ed estenuanti per comprare anche solo un pacco di pasta o di pannolini, i loro grandi spazi esterni ma angusti ritrovi interni, quelli dell’Anima.

"Paradiso", illustrazione di Gustave Dore


A Trivigno non si è vista depressione da pandemia né si vedranno i suoi traumi psicologici. Io non ho vissuto alcuna paranoia, alcun timore verso l’Altro, alcuna restrizione di orizzonti, alcuna assenza dell’aria, anzi… la maestosa natura primaverile del mio verde paese si è risvegliata più bella che mai intorno a me e ogni fiore o virgulto d’erba sono stati più che mai significativi: “la vita qui, a Trivigno, è più viva che mai e la Bellezza è tutta intorno a te”, sembrava sussurrare il vento. Il sole indugiava sempre più a lungo sulla mia fronte e sempre più caldo, perché qui il sole non ha fretta e ama “farsi un chiacchiera” con i suoi compaesani.

E parlando di compaesani, quale grande fortuna vivere in una comunità come Trivigno, piccolissima, quasi una tribù, ma proprio in quanto tale così attenta a ogni singolo membro in quanto ciascuno di noi è prezioso e “conosciuto” in paese. Non c’è il concetto astratto e anonimo della “società”, che già nella sua sinonimia presuppone un “interesse” spesso economico che fa da collante, ma impera il concetto di “paesano” (che la modernità ha voluto connotare come qualcosa di non evoluto e che l’esperienza di questi giorni, forse, ne ripristinerà la vera semantica): “che appartiene” alla sua gente, alla sua gens, al mondo che lo ha “generato”. I trivignesi non sono altro da me ma è l’origine più autentica della mia essenza. Ecco perché nella lunga notte del coronavirus a Trivigno non mi sono sentita mai sola, tutt’altro che isolata, direi piuttosto coccolata: un sorriso, anche sotto la mascherina, non è mai mancato; una parola di speranza o il classico “come stai e a casa tutto bene?” sono stati ingredienti costanti di un piatto amaro ma cucinato con tanto amore che in bocca lascia un retrogusto dolce e profumi da giardino: il giardino del mio paese, in cui ogni fiore ha un nome, una storia, un tono di voce unico e irripetibile. Come unico e irripetibile è ogni singolo paesino della Basilicata, proprio quelli che sono a rischio spopolamento, quelli più interni all’Appennino, quelli che definiscono “isolati” dalle grandi economie, ma che da sempre conservano la Vita mentre tutto intorno si semina morte: morte di comunità, di tradizioni, di valori e sapori che rendono tutto uguale, tutto insipido, tutto artificiale.



Grazie Trivigno, per le tue attenzioni, per la tua cura, per la tranquillità che hai saputo donarmi e per essere “parte” della mia essenza. E grazie all’intera Basilicata perché ancora conserva nel suo cuore autentico e selvaggio ben 131 comunità che somigliano alla mia.

Commenti

  1. E m.: donatoallegretti33@virgilio.it

    "Un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene a via." Scriveva Cesare Pavese. Anche per dirne male, aggiungo io, ma Carmensita Bellettieri dal suo Trivigno non è andata via e ne dice un gran bene. Il suo paese è come una visione paradisiaca; nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di suo che già la nonna le ha indicato.

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