Mirabilia sul confine tra Basilicata e Calabria: Monastero degli Antropici e Canna

Il gelso e la metamorfosi di Tisbe e Piramo, olivi, monastero di santa Maria degli Antropici, Nocara, Canna, confine jonico tra Basilicata e Calabria



Quanto indelebile può essere la traccia di un gelso secolare? Il suo rosso sangue si insinua tra le pieghe delle dita, le sue lacrime riescono a stamparsi sulla pelle per ricordare anche al corpo ciò che la mente deve serbare. Ti chiederai perché ricordare? Perché dove è custodito un gelso, soprattutto se nero, si custodisce l’amore, come quello di Tisbe e Piramo, i rispettivi Giulietta e Romeo dell’antichità; e si custodisce il sangue della vita, ovvero il vino, a cui si aggiungeva il succo del Morus nigra. Un gelso non mancava mai nei chiostri medioevali poiché veniva utilizzato dai frati o per la produzione di un vino detto “Vinum moratum” o per intensificare il colore del vino rosso. È così che i gelsi neri del Monastero di Santa Maria degli Antropici, nei pressi di Nocara, mi ricorderanno sempre il pulsare delle vene di fronte alla maestosa e sacra Natura che circonda questo antichissimo tempio, degno del dio Pan a cui il gelso è consacrato.


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UN MAGICO CONFINE TRA BASILICATA E CALABRIA

Al confine tra la Basilicata e la Calabria, seguendo la costa jonica e inseguendo il fiume Sinni, lungo le vallate dei suoi affluenti Ragone e Sarmento, si incontrano i due stupendi borghi di Nocara e Canna, già provincia di Cosenza ma facenti parte dell’antica Grande Lucania. Sotto la dominazione longobarda e bizantina, il vasto territorio da Nocara a Favale, l’attuale Valsinni, era un centro di rilevante importanza amministrativa, la cui Arcipretura faceva capo all’Arcivescovado di Acerenza. In queste antiche appendici della Basilicata ci si arriva varcando il confine tra le due attuali regioni, attraversata Nova Siri, si lascia la Basilicata e si entra in Calabria, si passa Rocca Imperiale e si arriva subito a Canna, poi a Nocara.


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Appena giunti a Canna, la classica ospitalità greca mi ha abbracciata in un aurea “stretta di gusto”: al frantoio oleario Panarace abbiamo fatto un aperitivo con uno degli olii più buoni mai gustati, una speciale creazione di Corrado nata dall’oliva locale, chiamata “la nostrana”, e i limoni tipici di Rocca Imperiale: l’olio al limone di Rocca… si può immaginare quali aromi e quali profumi possono nascere in bocca da questo liquido d’oro! Insieme all’olio ai limoni di Rocca, abbiamo incontrato un’altra tipicità di Canna: Mario Delia, il cicerone amico che tutti vorrebbero trovare sulla propria strada. Dopo qualche chiacchiera amichevole su olio, olive, grano e musica di Canna, ci orienta verso le “mirabilia” dell’area: il monastero di Santa Maria degli Antropici, che già dal nome ci incanta e ci soffia verso un’aura di mistero. Lì potremo consumare la nostra colazione a sacco per poi riscendere a Canna e fare una piccola escursione lungo i vicoli e i palazzi gentilizi del borgo, in sua gentile e sapiente compagnia. Detto fatto. Rinvigoriti dall’aureo sangue della terra, ripartiamo verso Nocara, alla ricerca del Monastero, ancora inconsapevoli della fluida e mitica meta che ci aspetta.


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LE MIRABILIA DEL MONASTERO DI SANTA MARIA DEGLI ANTROPICI 

Saliamo da Canna verso Nocara, seguendo le indicazioni per il ristorante-albergo Santa Maria degli Antropici. Dopo qualche chilometro di salita, giù a destra per una stradina scoscesa e un po’ malridotta… è un po’ dura la percorrenza, ma non bisogna desistere, speriamo nella meta. Più sforzo richiede e più soddisfazione ci aspettiamo. Dopo aver costeggiato prati pieni di pecore, capre e cavalli, dopo una rosa sbocciata solitaria e selvaggia lungo la strada, ecco l’arrivo. Roba da esclamazioni come “WOW!”, perché altre parole sono difficili da trovare.


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Ci troviamo su una terrazza panoramica a 537 metri sul mare da cui si colora un orizzonte sdraiato sulla vasta valle dove il torrente Ragone confluisce nel fiume Sarmento, affluente del Sinni, quella che fu la via naturale di penetrazione verso l’interno della costa jonica e luogo di passaggio tra la Basilicata e la Calabria. Ci sommerge un bosco di querce secolari, antichissimi lecci, frondosi castagni, un sottobosco fittissimo e dei giganteschi massi, scolpiti come installazioni ai piedi degli alberi, colano dal terreno scosceso come una cascata incastonata dalle radici arboree. Sembra un ancestrale sito che ha offerto all’umanità le sue magie per sacri rituali stagionali. Un bellissimo viale conduce il visitatore verso un giardino incantevole che abbraccia il monastero e l’antichissima cappella dedicata alla Madonna degli Antropici, apparsa da tempo immemore in una delle tante insenature create dal ventre petroso della terra. Questa splendida Madonna lignea con bambino, di chiara fattura medievale, è oggi ospitata nella nicchia centrale sopra l’altare maggiore. Nella cappella, le fanno compagnia, sugli altari laterali, le sculture di San Leonardo, Santa Monica e Sant’Agostino. Quest’ultimo è la traccia materiale dell’ordine monastico che ha abitato il monastero diversi secoli addietro, gli Agostiniani, e che, secondo alcune fonti locali, è stato scomunicato perché autore di riti pagani, e sostituito da suore. Ora il monastero è sede di un ristorante di cucina tradizionale, gestito da due dolcissime donne, madre e figlia, reincarnazione dei Lari locali. Come siamo arrivati, infatti, ci hanno omaggiato di un’ottima torta sbriciolata. L’accoglienza delle “pie” donne è il corrispettivo umano della dolcezza con cui qui ti seduce la Natura.


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Il complesso è esposto a est e le porte d’ingresso guardano la nascita del sole e, proprio in direzione dell’astro, si erge un gelso nero gigantesco, dalle legnose braccia così cariche di frutti da far declinare l’immensa fronda posteriore giù dal sentiero, verso l’avvallamento del terreno. “Sapientissima arborum“, il più saggio tra gli alberi, come Plinio il Vecchio definisce il gelso, sembra essere il cuore del grande giardino. Un albero mitico, pieno di passione e di fluido vitale. Ovidio ci racconta il tragico amore che il gelso conserva nella sua linfa e fa sgorgare dai suoi sanguigni frutti, poiché conservò l’amore contrastato dalle rispettive famiglie dei babilonesi Tisbe e Piramo. La fuga d’amore della coppia in un bosco dove c’erano una fonte e un gelso, proprio come il bosco che ospita S. Maria degli Antropici, sembra essere rinarrata dal copioso sangue che fruttifica sul maestoso albero nel giardino del monastero. Un racconto invisibile che tratteggia, coi suoi elementi naturali, di come Piramo si uccise, temendo che Tisbe fosse morta. Proprio mentre lui esalava l’ultimo respiro, arrivò Tisbe che, antenata di Giulietta, si tolse la vita con lo stesso pugnale usato da Piramo. Così si compì la metamorfosi e il gelso da bianco divenne nero perché irrorato dal sangue del tragico amore. E, poiché gli amanti sono sempre due, anche i gelsi di S. Maria degli Antropici sono due: il primo apre il giardino a est, lì dove nasce l’amore, e il secondo a ovest, alle spalle del complesso, lì dove muore l’amore. Due pozze di sangue ai loro piedi sembrano invocare un “memento amare” a tutte le anime che attraversano la nascita e la morte del giorno.


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Tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato d’uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi, serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!” 

(“Le Metamorfosi”, Ovidio)


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CANNA, IL BORGO ALL’OMBRA DEGLI ULIVI

“A Canna ogni famiglia ha il suo albero d’ulivo - dice il nostro cicero Mario Delia, mentre ci guida per i vicoli del suo paese- ne ha almeno uno se non ne può avere di più”. E, infatti, il primo mirabile incontro è stato proprio l’olio ai limoni di Rocca Imperiale, causa della conoscenza di Mario e della scoperta di S. Maria degli Antropici. Ed è proprio così, Canna è una piccola bomboniera decorata d’alberi d’ulivo: sono ovunque, ti seguono e ti precedono lungo tutto il cammino. Come racconta Mario, l’ulivo è stata sempre la più grande economia dei cannesi, assieme al grano e all’artigianato degli scalpellini. Gli stessi scalpellini che hanno scolpito la pietra locale dei portali dei vari palazzi gentilizi, come Palazzo Jelpo, attuale sede museale e di un antico mulino ad acqua ancora intatto e visitabile. 


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Strumenti per lavorare o conservare olio e grano sono disseminati un po’ ovunque nel paese a ricordare un passato che vorrebbe raggiungere il futuro: come il passato aureo dell’antico Palazzo Baronale che conserva come sentinelle le giare o le mole di pietra appartenenti a uno dei mulini ad acqua e ora splendida installazione nella nuova piazza. Una fresca ombra, quella degli ulivi per ogni casa, che viene riproposta anche da qualche donna creativa dal pollice verde, come un’originale decorazione per vasi ricavata da un fiscolo da frantoio.


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Di ulivo in ulivo varchiamo l’ultima porta dell’antica fortificazione e usciamo dalla “città vecchia” per fermare il laborioso fruttivendolo ambulante al suo ultimo giro, quello del tramonto. Facciamo la nostra spesa di verdura e ortaggi, salutiamo Mario e torniamo a casa con in bocca ancora l’aroma di questo stupendo e incontaminato confine tra Basilicata e Calabria.


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